Svizzera. Visti da fuori

pubblicato da Ticino Sette # 51 - 21.12.12

Capire noi stessi grazie allo sguardo degli altri. Una riflessione tra pregiudizi e analisi altrui, tra vizi e virtù della nostra identità svizzera e ticinese...

Nel mese di giugno ("TicinoSette" n. 25) scrivevamo della nostra scarsa capacità di saper integrare gli stranieri, donne e uomini, superando il muro dei pregiudizi legati anche solo all'aspetto fisico. Dopo aver suscitato più di una polemica, ora val la pena interrogarsi sull'altra faccia della medaglia, cioè su come noi veniamo percepiti dagli altri. Questa è la componente imprescindibile di un processo, l'integrazione, necessariamente a due sensi. Non è cioè possibile aprirsi a ciò che è diverso e riconosciuto come tale, ovvero l'alterità cara agli antropologi, senza considerare la visione altrui. Partendo proprio dagli stessi pregiudizi, fondati o meno, spesso legati a esperienze personali o a periodi storici definiti, che alcuni stranieri hanno su noi svizzeri del sud.

Freddini ma piacioni
Forse nessuno straniero come i nostri confinanti italiani del nord ci conosce meglio. Ogni giorno decine di migliaia vivono e lavorano tra di noi. Stessa lingua, cucina, letteratura, arte e mass-media, eppure così diversi, stando ai vari commenti che tempo fa ho potuto raccogliere da internet, blog e forum (il condizionale è tuttavia d'obbligo). Per un primo osservatore saremmo "molto più freddi e meno espansivi dei tedeschi", avremmo cioè "una mentalità più ristretta". "Si fanno un po' più i fatti loro" dice un'altro. Riservatezza e introversione che i tedeschi, i secondi maggiori visitatori del nostro territorio, confermano in un recente studio: "il 10,7% dei visitatori ritiene i residenti inospitali", mentre "il 21% ritiene alta o molto alta la probabilità di incontrare residenti inospitali". Insomma, scorbutici e poco cordiali.
I ticinesi sarebbero bravi "a giudicare (spesso senza conoscere, e male) altre persone di cui sanno ben poco, solo perché sono diverse da loro" sostiene qualcun altro. "Freddo, quadrato, calcolatore, egocentrico", dice di noi un'osservatrice, specialmente chi "parla quasi solo dialetto". Gli svizzeri addirittura "peggio degli americani", perché "pensano solo a fare soldi" sbotta uno. Per non far venire troppo il prurito a qualche lettore, c'è anchi chi pensa che non siamo poi così diversi dai lombardi: "a parte un maggior senso civico, non diffuso tra tutti, naturalmente, ma piu' diffuso che in Italia, non mi sembra ci siano molte differenze culturali con il nord della Lombardia". C'è anche chi riconosce in noi delle virtù: i ticinesi sarebbero "onesti lavoratori, buona e brava gente", oppure per un altro "allegri, sanno mangiare e bere, e non sono perennemente incazzati come troppi italiani".

Noi, questi sconosciuti
Oltre alla riservatezza e alla scarsa estroversione, qualcuno non ha potuto non notare il marcato provincialismo che ci contraddistingue, ritengo più per scelta che non per condizione imposta. In tal senso ci ostiniamo a considerare gigantesche le prossimità. Spostarsi a vivere da Roma a Lugano, cioè da una metropoli a "un paesone", afferma uno, comporterebbe "grossi svantaggi dal punto di vista della vita sociale", nonostante il fatto che "la quantità di stranieri qui è enorme". Chiediamoci quanto sono vivi e vitali i nostri paesoni. Quanti di noi frequentano le case e i ritrovi dei tanti stranieri presenti. L'impressione più diffusa è che, di noi ticinesi e svizzeri, gli stranieri sanno ben poco. "Io dei ticinesi non penso nè bene nè male, perché della Svizzera non si sa mai niente" afferma uno. La propensione alla riservatezza un eufemismo? All'Esposizione mondiale di Siviglia del 1992, ricordiamo, il paese si presentò con il provocante e ironico motto "la Svizzera non esiste", interrogando in realtà con pertinenza la nostra multipla e, proprio per questo, difficilmente definibile identità. Nello stesso periodo l'etnologo francese Isac Chiva scriveva: "il francese medio, compreso quello ben informato, non sa assolutamente nulla della Svizzera" (1). Forse davvero non interessiamo a nessuno perché, forse, non siamo così interessanti?

Paul Bilton è un pubblicista inglese che lavora nei dintorni di Zurigo. Come vedono gli svizzeri gli altri? Semplicemente, scrive, "gli altri tendono a non vederci": i romandi sono "difficili da differenziare dai francesi insolitamente puntigliosi", i ticinesi sono "facilmente confusi con degli italiani leggermente più rigidi", gli svizzero tedeschi sono "spesso ignorati come fossero dei tedeschi sedati" (2). Troppo diversi per essere simili, troppo divisi per essere assimilati a qualcosa. "Una Svizzera unita fino all'inesistenza degli svizzeri, sia come nazione, sia come paese" afferma il filologo spagnolo Carlos Alfonso Lombana Sánchez, (3) ma presente nel mondo solo nelle sue più dirompenti espressioni xenofobe, come il voto popolare contro i nuovi minareti, simbolo di un "regressivo e torvo rifiuto dell'altro" per il germanista italiano Claudio Magris. (4)

Sguardi inglesi
Diccon Bewes è inglese e fa il libraio a Berna. Con ironia afferma che il miglior cantone in cui vivere è il Ticino. Motivo: "il resto della Svizzera può mettere in dubbio l'etica ticinese del lavoro, o la sua mancanza, ma non è certo una coincidenza se è il cantone con più vacanze pubbliche di tutti". Amiamo controllarci (nelle emozioni) e controllare (gli altri). La Svizzera "è una burocrazia tanto quanto una democrazia", dice. A volte "si deve persino provare che non si è sposati, che non ci sono multe di parcheggio o che si vive dove si dice di vivere". Ma "per una nazione che apprezza la privacy, è quasi strano vivere con un tale controllo"! Per Bilton avremmo "un bisogno insaziabile di controllare tutto e tutti". La nostra apparente freddezza sarebbe in realtà per Bewes "il rispetto dello spazio personale e il prendersi il tempo per conoscere qualcuno".

Non essendo sanguigni come gli spagnoli, ad esempio, il carnevale (specie in Ticino) è "l'unico momento in cui gli svizzeri si lasciano veramente andare, vestono abiti oltraggiosi, si ubriacano in modo ridicolo e in genere si comportano come il resto dell'Europa". Saremmo un paese di preoccupati, ma i ticinesi "hanno la terribile tendenza di non preoccuparsi abbastanza", scrive Bilton. Che rilancia: saremmo formali ("si possono vedere scolaretti che si stringono la mano quando si incontrano"), autoritari ("i bambini devono essere visti ma non uditi"), ossessivi ("ogni mattina sembrano voler allontanare le loro fobie aprendo le finestre per arieggiare piumoni e cuscini"). Infine Bewes lancia un'idea rivoluzionaria: "se i treni svizzeri fossero più in ritardo, forse gli svizzeri si parlerebbero più spesso e l'intero paese sarebbe un po' più aperto".

Note:
(1) "La Svizzera: dall'invisibilità alla metafora" in La Svizzera - Vita e cultura popolare, Casagrande (1992), p. 1503.
(2) Esiste anche la versione italiana "Svizzeri, se li conosci non li eviti", Ed. Sonda (1995).
(3) Suiza y Europa: Problemas de identidad cultural y aproximación al concepto de pertenencia de nación en Max Frisch, Friedrich Dürrenmatt, Peter Bichsel y Adolf Muschg. Grin Verlag (2010), pag. 7.
(4) La letteratura è la mia vendetta, con Mario Vargas Llosa. Mondadori (2011).

Reazioni:

1 - "Trovo interessante quello che pubblica su TI7, svizzeri (e ticinesi) visti da fuori. Il tema è di quelli che avrebbe bisogno di montagne di libri, comunque complimenti per averlo ridotto su tre colonne e con consultazione di sette elementi di giudizio, probabilmente il più interessante è "Suiza y Europa", con il parere degli scrittori svizzeri, anche se la citazione della sola pag. 7 appare un po' riduttiva. (...) La tecnica del citazionismo è senza dubbio accattivante, ma permette (scoperta dell'acqua calda) di far diventare comunista il papa e capitalista anche Leonid Brezhnew, che come è noto apparteneva a una nazione (URSS) che mangiava i bambini per colazione. Peccato, come diceva Montanelli, che i comunisti non abbiano mangiato anche i genitori. Fuor di metafora(?), è dura analizzare un tema di questa portata in un semplice articolo di giornale o anche di periodico. Per carità, nessuna intenzione di avviare un contenzioso, ma a venti anni di "Suiza no Existe" di Siviglia bisogna anche dire che ci fu un trekking dalla val Mustair all'Expo 2002, chiamato "Suiza Existe", con una quarantina di svizzeri di varie etnie e svizzeri all'estero (una decina di giorni, con la scalata di due "tremila" e di un "quattromila") per interrogarsi, cammin facendo, sui cambiamenti intervenuti. Continuando il discorso avviato da Harald Szeeman e collaboratori. Sarebbe stato bello riperterlo, quel trekking, riproponendo l'interrogativo, a dieci anni di distanza. Quale Svizzera existe? Ma ormai il decennio è passato e la profezia dei Maya, ahinoi!, ma per fortuna...non ha avuto molta fortuna. Comunque, grazie ancora per lo stimolo e tanti auguri per le feste e per il nuovo anno. Hasta luego".
(P. B. Lugano, via e-mail il 22.12.12)
Altro sul tema: Integrazione e pregiudizio