Natale, altri tempi

pubblicato da Ticinosette #51 - 19.12.14

Dalle cene delle numerose famiglie contadine alle tradizioni scomparse della festività più sentita di sempre. Breve viaggio nel Ticino del Novecento...

È Natale. “Che baldoria pei bambini e quale disperazione per le mamme!” scriveva nel 1932 su “Illustrazione ticinese” l'articolista a firma “Gavroche”. Oggi è probabile che anche molti papà si disperino, potrà confermare il lettore, perché “se i bambini riescono ad appiccicare il naso ad una vetrina di giocattolo non c'è più nessuno che li può staccare!”. Oggi quelle vetrine sono più grandi, più numerose, più virtuali, ma che bello pensare ai nasi dei bimbi che ungono il vetro illuminato di un negozio. E lasciamoli sognare, esortava giustamente “Gavroche”, suvvia, quando correvano gli anni '30, anni di crisi, tanto quanto quelli odierni. È da sempre la festa dei bambini, ma per noi adulti, dopo tutto, non è la stessa cosa? In questo Ticino dell'abbondanza, a cui materialmente parlando niente manca, il Glauco scriveva in dialetto su quelle stesse pagine ingiallite: il “Tisin, paes da la cücagna”, dove “par tirà innanz la baraca, 'sa fá tütt quéll ca sa pò”! Anche a Natale, che sono giorni di rispetto, di bontà, di fede, di riflessione, di unione, di sogno e di speranza, come se, immaginava il Glauco, “i banch i dà foeu danee?”...

La vecchia mucca
C'erano una volta le famiglie numerose del Mendrisiotto, quelle composte da una trentina di persone nella massima semplicità, ricorda sulla stessa rivista l'autore che si firmò “G. P.”. Gente umile che nella bella stagione, oggi è anacronistico dirlo, emigrava come muratore o scalpellino in Lombardia e in Piemonte, perché qui c'era poco lavoro. Era il Ticino arretrato e poco sviluppato, ma era l'Italia delle opportunità. Quattro soldi da portare a casa per i contadini che univano il malloppo sufficiente (sessanta franchi!) per comprare prima di Natale una... vecchia mucca! Proprio così. Non mancavano mai, quelli no, i prodotti della terra che gli anziani raccoglievano per l'inverno. E “una buona goccia di vino nostranello si trovava sempre nelle cantine”. La mucca la macellavano e se la dividevano da buoni soci, dieci chili a testa. “Alla vigilia di Natale, mentre il ceppo crepitava nel camino e le campane, solenni e gravi, annunciavano all'umanità la nascita del bambino Gesù”, a qualcuno toccava l'ingrato compito del fuochista, “perché la carne della vecchia mucca era dura e ci volevano ore ed ore per cuocerla bene, affinché fosse mangiabile”. Allora solo gli agiati e i ricchi potevano mangiare carne e pane di frumento cotto in casa tutto l'anno. C'era il buon piatto di “busecca”, poi la messa e tutti a casa, a bruciare un ramoscello di ginepro nel camino, segno di pace e di devozione.

Il grande panettone
Ricordiamo, anche se molti di noi non c'erano, che “si cominciava con un buon piatto di misto, (…) salame e mortadella, poi seguiva un buon risotto, poi carne in abbondanza, capponi, tacchino ed un'infinità di altre cose gradite al palato” si narra. Il buon vino, di buona annata, certamente, fino al “panettone che misurava talvolta un mezzo metro di diametro”! E chi l'ha mai visto un panettone simile? Afferma l'anonimo autore che “in quasi tutti i paesi del Sottoceneri, ed anche nelle grosse borgate, il commercio di tutti i generi alimentari assumeva delle proporzioni impressionanti”. Oggi quelle famiglie numerose e patriarcali non esistono più, “malgrado che la vita, il progresso, i salari, e tutte le condizioni economiche, abbiano subito (…) dei miglioramenti sensibili”. Cosa è cambiato? In fondo, non molto, sembrerebbe, tanto che “al giorno d'oggi non vi regna che invidia e gelosia, e non vi è più quell'affiatamento sincero e bonario tra famiglia e famiglia”. Quello che si respirava nelle osterie, nelle strade e nelle piazze, nelle vecchie storielle di paese e nei canti gioiosi di donne e bambini.

Il mondo placato
La poesia dialettale ticinese è un bel regalo, perché è lingua a sé stante, possiede un non so che di altero e dignitoso, di gentile e rispettoso. Come “quell galantom crodaa gió da chissà dova” scriveva il Glauco, quando “'l sòci al 'sa serviva, al godeva 'l nost bèll soo”. La vita è (era) questa qui, fatta di alti e di bassi, “vün va sü, l'altro 'l và gió”! Saltiamo nel tempo, immutato come il Natale per taluni, in certi luoghi, in certi momenti, un salto col Piero Beretta che, se non casco nell'omonimia, fu pioniere di certa cronaca locale, lui che in Contrada di Verla s'incontrava con gli amici al “Gin Bianchi”, storico ritrovo di Lugano che non c'è più. Il Piero ricordava un Natale del 1914, a militare, quando mandava dei “baci grossi come il San Salvatore, o il poncione di Daro o il Generoso”, baci scritti a mano sulle lettere che i soldati inviavano ai cari prima delle feste. Allo stesso modo, annotava il “G. P.”, “tutti gli emigranti, ovunque si trovassero, aspettavano con ansia ed impazienza il giorno del rimpatrio, per festeggiare in seno ai loro cari il giorno di Natale, sacro alla memoria dei nostri vecchi”. Nonni e zii adorati, come oggi presumo, rispettosamente si chiamava lui il “regiu” e lei la “regiura”. Era il 22 dicembre del 1945, la memoria del grande conflitto ancora fresca, quando “questo Natale vede finalmente il mondo intero placato e intento all'opera della pace. E sebbene quest'opera riesca ardua e difficile, ogni uomo (e donna, ndr.) deve collaborare ad essa con intendimenti sani e con tanta buona volontà”.

“Fausta contingenza”
Ci fu un giorno di più amori dichiarati, ritratto dal fotografo Marino Casagrande, per “quattro matrimoni celebrati insieme nel paesello di Gnosca. Un avvenimento veramente raro”! Una tale Graziella curava la rubrica del sabato dedicata alla corrispondenza coi lettori, coi piccoli lettori, nella quale leggiamo della Ginetta di Lodrino e dei suoi due libri da leggere; della Silvana di Biasca che temeva di non poter partecipare ai giochi perché troppo piccola; del Francesco di Mesocco e dei suoi graziosi disegnini; della fotografia delle sorelle birichine Mariuccia e Rosanna di Lugano; delle poesie in francese dell'Alda di Airolo, ecc. Nella “fausta contingenza del Natale”, leggiamo, “anche chi nelle lotte della vita si è corazzato contro il sentimentalismo, non sfugge ne può sfuggire all'influsso di quest'aura e vede uomini ed eventi sotto una visuale diversa”. Scorriamo le pagine del tempo, anni Cinquanta, 1954 per la precisione, il Natale regala al giornalista Giuseppe Lepori di Lopagno l'elezione nel Consiglio Federale, è l'orgoglio ticinese, anche se si occuperà “solo” di poste e di ferrovie. Gli ascoltatori di radio Monte Ceneri saranno orfani dell'attore italiano Giuseppe Galeati, mentre a Faido-Carì riprendeva l'attività sciistica grazie alle copiose nevicate. Nella pagina “per la massaia” si capisce quale fosse il ruolo delle donne nelle case di un tempo.

La buona educazione
“Per il giornalista questo tema obbligato è, in una volta, impaccio e sprone. Egli sa che il lettore non ferma più l'attenzione sulle prose natalizie, avido come è di cose e fatti nuovi”. Era l'editoriale del 1960 e vogliamo credere che l'autore si sbagliasse, perché mai come oggi il passato si dimentica, proprio perché così.... passato. Dunque è novità, come un po' lo è la neve a Natale, classico connubio, ma sempre meno evidente col clima impazzito che ci ritroviamo. Venne aperta la funivia del San Gottardo che congiunge Airolo col Sasso della Boggia, tanto importante, ci mancherebbe, quanto lo spostamento di un negozio di calde trapunte e corredi natalizi da Cassarate in Via della Santa. L'antica “fashion blogger” che si firmava “chiffon” scriveva delle tute da sci Pucci di Firenze, ma anche del tulle Marucelli di Milano, mentre nella consueta rubrica “per la massaia” già si commentava un vezzo sempre più diffuso che non può, oggi, non farci riflettere: “ci sembra che le madri (e i padri, ndr.) non si sforzino più tanto per inculcare nei loro figli la necessità della cortesia, della buona educazione in tutto ed in ogni momento”. Ecco, in tutto e ogni giorno, non solo a Natale.