Disagi in cattedra - La dura vita del docente

pubblicato da Ticinosette #1 - 4.1.2019
Com'è noto della sperimentazione “La scuola che verrà” non se ne farà niente, per ora, dopo che lo scorso settembre il 56,7% dei ticinesi ha bocciato il progetto. E malgrado prevedesse anche delle misure in aiuto ai docenti, come la co-docenza, i coordinatori di materia, i consulenti didattici, delle valutazioni più mirate, classi più piccole ecc.

Per molti insegnanti restano quindi sul tavolo i problemi, i disagi e le difficoltà di sempre, se non peggiori di un tempo a causa dei mutamenti della società e della famiglia: dagli allievi difficili ai conflitti coi genitori, coi colleghi o coi direttori, dallo stress al “burnout”, fino ai cali di motivazione, alla vocazione più o meno in crisi, alle competenze e alla qualità della formazione.

Insomma, il mestiere si fa sempre più difficoltoso. Lo scorso maggio non è stata forse sventata una presunta sparatoria alla Scuola cantonale di commercio di Bellinzona? Nella Svizzera tedesca non è forse già indice di qualche problema la recente richiesta di istituire dei “centri di mediazione” rispetto a dei genitori sempre più critici?

Ebbene, alcuni docenti ticinesi di scuola media, cioè il contesto che sembrerebbe presentare maggiori problematiche in ragione all'età di sviluppo degli allievi, hanno accettato di raccontarci alcune loro crociate quotidiane, a condizione di tutelare il loro anonimato.

Ma di cosa stiamo parlando? Cominciamo col dire che si tratta, purtroppo, di un fenomeno “sommerso” di cui è “ancora in parte un tabù parlare”, riconosce persino il capo della Divisione della scuola del DECS, Emanuele Berger, su “Scuola Ticinese” (n. 1/2018).

Ora, va pur detto che la stragrande maggioranza dei docenti sta bene e lavora bene, eppure sulla base di studi recenti della SUPSI possiamo stimare, tra i vari ordini scolastici, quasi un migliaio di “insegnanti in crisi” sul totale, una media del 20-25%. Non sono certo pochi. Oltretutto, se non ci fosse un problema il DECS nel 2011 non avrebbe lanciato il progetto “Linea - Sostegno ai docenti in difficoltà” (vedi articolo in seguito).

Un mestiere unico
“Quando ho cominciato c'era un po' di timidezza, anche perché non conoscevo i ragazzi” ci racconta Daniele*, 35enne insegnante di educazione visiva/arti plastiche, “ma soprattutto mi rendevo conto che ero in aula e avevo un ruolo che si forma solo col tempo. È complicato, perché non hai un metro per capire subito gli atteggiamenti, i metodi, le tecniche”.

Di fatto l'insegnamento è un cosiddetto “helping job”, un lavoro di aiuto (o di cura) come può essere il medico o il poliziotto. Tuttavia è unico nel suo genere: “non esiste altra professione dove (il rapporto con l'utenza, ndr.) sia così prolungato e insistito. Più ore al giorno, tutti i giorni della settimana, nove mesi l’anno” ribadiva uno dei più noti studiosi italiani dello “stress lavoro correlato” dei docenti e medico ASL, Vittorio Lodolo D’Oria. E questo per cicli continui di 4-5 anni lungo una carriera che può durare più di trent'anni: provate ad immaginare cosa vuol dire.

Secondo Claudio*, 45enne insegnante di geografia, un aspetto positivo del mestiere è la grande autonomia di cui si gode lavorando da soli in classe. Nella maggiore parte degli altri mestieri si lavora in coppia o in gruppo, si deve rendere conto ogni giorno a colleghi, superiori e direttori, ma non a scuola. A ben vedere, però, è una libertà relativa in un ambiente chiuso come una sede scolastica. “Gli allievi si muovono, hanno altre materie e quindi parlano di te, anche coi colleghi, e poi si vede quello che produci, il risultato nelle note dei ragazzi” osserva per esempio Daniele.

Andrea*, un altro docente di educazione visiva ma da poco in pensione, solleva il fatto che “si devono seguire corsi di aggiornamento pressoché annuali, molto più di qualsiasi altra professione. La nostra è una figura super controllata!”. Già, perché poi ci sono i docenti di pratica professionale che supervisionano le matricole al primo anno di docenza; gli esperti di materia che, una tantum, verificano l'attività in classe (con o senza preavviso); la formazione continua, molto più strutturata e controllata di un tempo dopo la nuova legge introdotta nel 2015.

Genitori sindacalisti?
Non meno problematico sembra l'atteggiamento sempre più critico di alcuni genitori verso le valutazioni dei loro figli, ma non solo. “Docenti sviliti e genitori in cattedra, il paradosso della scuola al contrario” titolava per esempio “La Stampa” lo scorso febbraio. Secondo Andrea il docente sarebbe lasciato un po' troppo solo: “per un errore, un malinteso, una contestazione, ci si trova a dover rispondere all'esperto di materia, al direttore, al plenum dei docenti, al capo del settore medio ecc.” dice.

Le persone a cui dare conto in una professione pubblica come l'insegnamento sono di fatto tante, specie quei genitori sempre più protettivi che sembrano ormai diventati i “nuovi controllori” dei docenti. Una parola di troppo, un gesto mal posto, un voto ritenuto ingiusto e si scatena la furia di mamme e papà. Basti dire che in Ticino reclami e ricorsi dei genitori contro le valutazioni dei loro figli sono in aumento: lo confermava a “liberatv.ch” il direttore del DECS Manuele Bertoli. Un grattacapo non da poco.

Gianni*, 44enne professore di storia, vede chiaramente le conseguenze: “se sei troppo severo vuol dire avere problemi coi genitori, così certi colleghi sono molto generosi per evitare dei ricorsi”. Non sappiamo quanto ciò sia diffuso ma non è possibile escludere che accada, purtroppo a scapito di una corretta valutazione delle competenze dell'allievo.

Lo stesso accade, secondo Claudio, quando si assiste a certi comportamenti dei ragazzi: “se un allievo tira un pugno a un altro, io scrivo e telefono a casa, ma il genitore mi dice 'che vuole che sia? Sono ragazzi!'. E se per caso cerco di applicare una sanzione disciplinare, la reazione del genitore è quella di difendere sempre e comunque a spada tratta il ragazzo”. La frustrazione è palpabile.

Secondo Daniele “ci sono dei genitori un po' arroganti, magari molto possessivi verso i figli, oppure un po' 'ignoranti' rispetto al loro ruolo di genitore”. Ci narra un caso puntuale: una madre che, per i problemi scolastici del figlio, aveva chiesto che venissero puniti anche altri compagni di classe. “Le ho dovuto spiegare come funziona la scuola e fino a dove arrivano le nostre responsabilità” dice Daniele.

Per Gianni invece non c'è di peggio di quei genitori che, racconta, “vogliono anche spiegarmi perché non faccio questo o quello nella mia materia, ma io non dico come si fa la madre, quindi non mi s'insegni come si fa il mio mestiere!”. Genitori in cattedra, appunto: sarà sempre peggio?

Gli allievi problematici
A mettere in crisi i professori, spesso i più giovani e meno sperimentati, sono soprattutto gli allievi cosiddetti “problematici” o “ingestibili”. La scuola “inclusiva” ticinese, un unicum svizzero, ne è sempre più piena, specie le sedi urbane. Sono ragazzi con alle spalle molto spesso disagi famigliari, personali, un passato migratorio, che li portano a manifestare “comportamenti non attesi o divergenti”, afferma il DECS in una scheda, e per cui le “strategie di contenimento (...) non si rivelano sufficientemente efficaci”. Persino alle scuole elementari. È di dicembre lo sfogo di una docente riportato da “tio.ch”: “noi docenti spesso siamo abbandonati a noi stessi” ha detto riferendosi ai problemi con un'allieva ingestibile. Insomma, è davvero così? E perché?

Di fatto l'armamentario della scuola appare già oggi enorme tra sanzioni, sospensioni, sostegno pedagogico, educatori, “zone cuscinetto”, differenziazione curricolare, “progetti educativi personalizzati (PEP), “progetti di unità scolastica differenziata” ecc.. Eppure non sembra più sufficiente.

“In una sede ho avuto diversi casi difficili in prima media e lì, quando hanno 11-12 anni, è tosta” ammette Daniele. “C'era un undicenne veramente problematico che non stava coi genitori ma in un istituto. Aveva un comportamento ingestibile, prendeva a pugni il muro, ti gridava addosso ecc. Ho dovuto capire i miei limiti come docente e questo chiaramente ti mette un po' in crisi, è un po' frustrante”.

Gianni rammenta il caso di una sua ex allieva: “non ho le competenze per dirlo, ma sono convinto che avesse dei problemi psichiatrici. In classe era ingestibile. Per richiami e interventi fuori luogo il 40-50% del tempo di una lezione era dedicato solo a lei! La soluzione sarebbe un accompagnamento molto più individualizzato, ma con quali fondi?”. Già. Inoltre di fronte a questi casi, talvolta anche gravi, è legittimo chiedersi: fino a quando il modello “inclusivo” ticinese reggerà? Fino a dove si deve spingere il ruolo educativo dei docenti?

Scontri tra colleghi
Come se non bastasse anche la scuola è un'organizzazione fatta di persone e di personalità, che non sempre vanno d'amore e d'accordo. Senza contare le divergenze tra teorie, ideologie e correnti di pensiero, siano esse più politiche o più pedagogiche. “Si dà per scontato che ci sia collaborazione coi colleghi ma ci sono sempre tensioni” sostiene Gianni, riferendosi in particolare ai consigli di classe o ai plenum docenti.

“Si creano dei clan, ci si ignora l'un l'altro e dopo ci si scontra: io l'ho visto in molte sedi. Mi è successo per dei ragazzi con dei disturbi specifici di apprendimento (come la dislessia, ndr.) per cui vengono approvati dei PEP: alcuni colleghi li applicano in modo scrupoloso, altri no, se ne fregano” afferma. “Ognuno di noi si reputa un professionista e il suo metodo ogni tanto va a cozzare con quello degli altri, specie per la metodologia di gestione degli allievi difficili” gli fa eco Claudio.

La scuola ticinese è laica, lo dice la legge nella definizione della scuola pubblica: “L’insegnamento è impartito (…) nel rispetto della libertà di coscienza” (art. 1). Eppure l'eterogeneità delle sedi, dei contesti e di chi vi insegna creano talvolta piccole o grandi frizioni. Andrea ricorda addirittura il caso di quando si dovevano fabbricare presepi o alberelli di Natale: “mi rifiutai categoricamente e andai in conflitto con il Collegio docenti, ricordando la laicità della nostra scuola e la multiculturalità” dice.

Ma sembrano essere i voti e le valutazioni degli allievi il vero terreno minato tra colleghi, persino quando non contano per la media finale come la “nota di condotta”. È quanto accadrebbe secondo Gianni: “se un docente tendenzialmente rigido alla fine della quarta media dà molti sei in condotta, gli altri docenti di classe vorranno rifare il Consiglio di classe per rivalutare quello o quell'altro loro allievo!” sbotta. E così partono discussioni infinite, anche perché il fiato dei “genitori sindacalisti” è sempre sul collo dei docenti.

Normale, dirà qualcuno, ma c'è da chiedersi se tutta questa eterogeneità di pensieri, decisioni, pratiche e rivalutazioni faccia davvero il bene dell'allievo e della società, o piuttosto rifletta soltanto l'ego e l'individualismo del singolo insegnante.

Chi getta la spugna
Poiché la società cambia anche la scuola dovrebbe cambiare, ma non è sempre così. E tanto meno sembra essere la scuola a cambiare la società, ma tant'è. Non sorprende però più di tanto che di fronte alle crescenti difficoltà vi sia un “progressivo aumento” delle “dimissioni” dal ruolo di insegnante già a partire dalle scuole elementari. In quelle professionali il 20% dei docenti cessa l'attività perché si licenzia. Sono le statistiche del DECS dei periodi, rispettivamente, 2009-2013 e 2009-2012.

Uno dei motivi secondo Daniele sarebbe l'età troppo precoce con cui si comincia a insegnare: “più si è giovani e freschi di abilitazione più è difficile! È come essere ancora un allievo che, tutto d'un colpo, cambia ruolo e si ritrova dall'altra parte” afferma. Secondo lui e Gianni sarebbe meglio insegnare con un po' di esperienza di vita e professionale alle spalle, e non freschi di laurea e di abilitazione. Un tema che sarebbe da approfondire, ma il progetto “LINEA” conferma queste difficoltà: “l'entrata effettiva nella professione è sovente accompagnata da difficoltà in diversi ambiti”, come quella “da parte dei neo docenti di gestire la classe”. Mancano magari autorevolezza, carisma, attitudine, ecc.

Sembrano aspetti fondamentali, forse più di quanto si spensi, a tal punto che una docente di scienze ci ha scritto la tesi di abilitazione al DFA/SUPSI. Ogni lezione, si legge nel suo testo di dominio pubblico, è una “costante ricerca di autorevolezza” con allievi annoiati, indifferenti, strafottenti. “Mi sembra un supplizio” si sfoga. Anche tra le nostre testimonianze troviamo conferma di questo problema. “Conosco dei casi in cui è intervenuta persino la scuola per far capire che, se quei neo-docenti continuavano così, non andava bene. Non è un lavoro per tutti!” ci tiene a dire Daniele.

Anche la richiesta di cambiare sede da parte di un o una docente può nascondere dei disagi personali e/o professionali, un clima di sede malsano, dei colleghi malvisti. Stando ai dati disponibili del DECS, nel periodo 2003-2010 alle medie i trasferimenti hanno subito un'impennata, arrivando a 53 casi solo nel 2009. Nei licei 33 professori hanno cambiato sede solo nel 2012. Non si può nemmeno escludere che persino l'arrivo di un/a nuovo/a direttore/trice possa generare una specie di “fuggi fuggi”: cambi di sede, persino di livello scolastico.

Da nostre informazioni capita anche che uno o più allievi ingestibili avrebbero portato degli insegnanti a richiedere (e ad ottenere) il trasferimento di sede, fallendo così nel loro ruolo educativo. Insomma, se la scuola non è più quella di una volta, forse non lo è più nemmeno l'insegnamento? Poiché il problema non è solo scolastico, sindacale o professionale, ma riguarda la società nel suo insieme, andrebbe forse indagato meglio di quanto non lo si stia facendo oggi.

*l'identità è nota all'autore.

LINEA: "Siamo contattati regolarmente"

Secondo il rapporto “Lavorare a scuola” (SUPSI, 2017) il 20% dei docenti di scuola media, licei e scuole professionali (circa 700 unità) prova “insoddisfazione” per il lavoro, le condizioni, i rapporti coi colleghi o coi direttori. Una percentuale che viene definita “non irrilevante”. Nel rapporto “Resilienza degli insegnanti della formazione professionale” (IUFFP, 2016) si parla invece di un 23% (circa 340 unità) di prof “fragili/a rischio” con “parecchie/molte difficoltà”, “bassi livelli” di competenza percepita, di fiducia nelle proprie capacità e che hanno già pensato “saltuariamente/spesso” di cambiare lavoro.

Facendo due somme in base al censimento docenti 2010, significa che ogni giorno, senza contare le scuole comunali, entra in aula demotivato quasi un migliaio di insegnanti. È proprio a questi problemi che il progetto “LINEA” intende rispondere con 11 misure su 14 già avviate e nei seguenti ambiti: “sensibilizzazione, informazione e formazione; ricerca; alternative professionali; rete di supporto”. Ma sugli esiti e lo stato attuale del progetto c'è parecchio riserbo.

Le responsabili Paola Maeusli Pellegatta, esperta di ingegneria della formazione continua, e Carlotta Vieceli, del Servizio di sostegno psicologico per docenti, ci hanno detto soltanto che "LINEA" è contattato “regolarmente” da docenti e direttori “di ogni ordine e grado senza differenze in base al genere”. Ma quanti sono? Quanti anni hanno? Questi sono “elementi interni e confidenziali” dato che “siamo in una fase ancora sperimentale”, spiegano le due esperte del DECS.

Ai docenti che per ragioni di salute non ce la fanno più si offre, spiegano, un “ricollocamento all’interno dell’amministrazione cantonale”. Mentre dei “tutor” per giovani docenti (con meno di cinque anni di esperienza) sono già presenti in una “decina di sedi (medie, licei e scuole professionali)” ma “in maniera non valutativa e non legata alle singole materie”.