L'esempio di Benjamin

pubblicato da TicinoSette #24 - 12.6.15

Potremmo vivere al cento per cento locale, consumando solo prodotti locali e nazionali? Un giornalista ci ha provato per un anno intero......

Il documentario/inchiesta del giornalista francese Benjamin Carle, trasmesso anche dalla nostra televisione, ci dà lo spunto per una riflessione sul modo di produrre e, soprattutto, di consumare beni. È una questione oggi più che mai densa di implicazioni etiche, sociali, ambientali ed economiche. In breve, Carle ha tentato di vivere un anno intero secondo il motto “cento per cento francese” e per farlo si è imposto tre regole: consumare beni esclusivamente prodotti nel suo paese; eliminare qualsiasi contatto con prodotti stranieri e, se c'era un dubbio, non si consumava; dotarsi di un budget di 1'800 euro al mese per sostituire tutto ciò che non è di provenienza locale.

“Un buon cittadino”
“Sono figlio della mondializzazione. In venticinque anni ho consumato prodotti di un'infinità di paesi che mai visiterò. I politici ci parlano di 'patriottismo economico', 'protezionismo', 'made in France', quindi ne deduco che per essere un buon cittadino dovrei consumare d'ora in poi solo prodotti francesi!” dichiara Carle in modo un po' provocatorio. Tra i politici ecco Mitterand rivolgersi ai telespettatori negli anni '80 con un “senza di voi, che cosa possiamo fare?”, e poi Sarkozy e oggi Montebourg, ministro del rinnovamento produttivo.

Benjamin comincia col rendersi conto della provenienza degli oggetti che utilizza e consuma ogni giorno: la sua bicicletta (per metà cinese e per metà inglese), i suoi vestiti (fabbricati in Cina o in Bangladesh), le scarpe (Vietnam), il computer (ideato in California e assemblato in Asia), la videocamera (Giappone), il televisore (costruito in Corea), la sua birra preferita (Belgio), le serie tv (Stati Uniti), il calcio (inglese), ecc. Poi c'è il problema della marca degli oggetti: se è straniera l'oggetto potrebbe essere stato prodotto, interamente o parzialmente, in Francia e viceversa (per esempio la marca della sua vaporiera è francese, ma è fatta in Cina). Un occhio alla dispensa: la Francia coltiva i fagiolini verdi ma i suoi vengono dal Kenya, i cetriolini dalla Turchia, i pomodori dalla Spagna, le fragole... no, quelle sono francesi.

Insomma, anche il cibo è una sfida. Senza parlare poi di lampadine, tende, elettrodomestici, letto, divano, tavolo, ecc. Ebbene, dall'analisi del suo bilocale Benjamin scopre, suo malgrado, che gli oggetti francesi sono meno del 4,5%, quindi dovrà sbarazzarsi del 95% di tutto quello che ha (compreso il frigorifero perché non ne esistono di fabbricati in Francia). Per sapere come va a finire invito il lettore a guardare il filmato in rete e poi a porsi la domanda: se dovessimo fare come Benjamin che cosa rimarrebbe nelle nostre case?

Il buon senso
Rievocare i concetti storici di “sovranità alimentare” o di “sovranità industriale” potrebbe apparire nostalgico, ma qui sta tutto il problema: i limiti del consumismo globalizzato sono sotto gli occhi di tutti. Mentre se consumassimo più prodotti locali è indubbio che vi sarebbero molti benefici: più lavoro per gli artigiani, per gli agricoltori (ai quali dovremmo pagare meno sussidi pubblici), si creerebbero nuovi posti di lavoro, le industrie e le aziende importerebbero di meno o per nulla (causando meno costi economici ed ambientali), vi sarebbe maggiore indotto sul territorio, e noi cittadini vivremmo sicuramente in modo più sano, con meno spreco e meno inquinamento.

Stiamo parlando del concetto “chilometro zero”. “Non possiamo ignorare la globalizzazione, i costi di produzione e le logiche di mercato” sostiene ad esempio Marco Morosini, analista ambientale del Politecnico di Zurigo. Ma “se l'impegno è di una moltitudine (di persone, ndr.) le cose cambiano eccome”, siccome “il concetto è giusto, perché acquistare il più vicino possibile vale in generale, e dovrebbe bastare il buon senso dei consumatori”. Lecito quindi domandarsi: ma con tutti questi vantaggi, allora perché non lo facciamo?

Il “caso elvetico”
“Il problema è che in Svizzera il prezzo della merce viene fissato da importatori e fabbricanti, i quali approfittano dell'idea che qui il costo della vita sia più elevato per fissare prezzi all'ingrosso più elevati” sostiene il coordinatore dei Verdi ticinesi Sergio Savoia. E non è l'unico. L'economista Mauro Baranzini afferma che “ci si concentra troppo sul 'prezzo' di un dato bene o servizio, e poco sulle realtà che stanno dietro il prezzo”, e si dimentica la qualità, il salario di chi produce, l’ambiente, le sostanze nocive, ecc.

E come Savoia dice che “anche le case editrici estere, e quelle italiane in particolare, fissano dei prezzi per la Svizzera del 100 per cento più alto e anche di più, sfruttando il maggior potere d’acquisto degli svizzeri. Ma non sono i soli a farlo; lo fanno anche le case automobilistiche, ecc. D’altra parte anche le ditte farmaceutiche svizzere fanno la stessa cosa con i loro prodotti all’estero. Altro che libera concorrenza!”.

Già, questo sembra il “tabù” che pochi denunciano e che nessuno sembra voler risolvere. Lo dimostrano le difficoltà che si riscontrano ogni qualvolta si tenti di abolire il cosiddetto sistema dei cartelli orizzontali (tra fornitori) e verticali (tra produttori e distributori). Del resto il recente “valzer valutario” euro/franco non conferma forse quanto tutta questa costruzione sia artificiosa e a nostro totale ed esclusivo discapito?

Non siamo francesi
Spesso noi svizzeri ci vantiamo della “qualità elvetica” (vera o presunta) ma poi, paradossalmente, non siamo così sciovinisti come i cugini francesi. Perché ci fa difetto una certa “motivazione patriottica”? I segnali lanciati dalla politica, come accade per esempio in Francia, sono quindi molto importanti. In Ticino dal 2001 esiste il “Gruppo cantonale per lo sviluppo sostenibile” (“GrussTi”) che gestisce un sito, pubblica opuscoli, organizza eventi, conferenze, ecc. È certo un buon segnale, ma credere che questo potesse incidere sulle nostre abitudini sarebbe sciocco. Perché i rapporti di attività “GrussTi” sono fermi al 2010? Perché l'ultimo dibattito è del 2013? Perché ai giovani, molto più sensibili al tema e principali attori del cambiamento, la politica non dà segnali più concreti?

Nel 2007 il “parlamento dei giovani” portò all'attenzione del Governo il tema di un “incentivo all'uso e consumo di prodotti locali”. L'allora Consiglio di Stato si limitò a dire che c'è già una “Conferenza agroalimentare” e che si fanno delle “manifestazioni” annuali per “incentivare anche il consumatore a consumare locale”. Troppo poco, le priorità sembrano altre. Infatti nel 2009 si ammetteva che “risulta difficile (…) un’analisi approfondita (…) della difesa della produzione locale”. Ad oggi non solo non esiste uno studio sul “consumo locale”, ma i pochi dati ufficiali vanno letti “con precauzione” (p. 449).

Di fatto il “GrussTi” servì più che altro “per rappresentare il Cantone al Forum svizzero dello sviluppo sostenibile”, si legge nei documenti parlamentari, ma poi a rappresentarlo ci andammo ben poche volte, come si legge nei verbali del Forum. Il sospetto è che sembriamo vittime del vezzo tutto elvetico dei “primi della classe”, per cui conta più esserci che fare, molto più di quanto si creda, e così il “km zero” diventa soltanto uno slogan “politicamente corretto”. No, proprio non siamo francesi, noi svizzeri e ticinesi.

Meglio di tutti?
Se non fosse vero che ci piace primeggiare, allora perché nella nuova legge del 2013 sul “made in Switzerland” abbiamo fissato al 60% i costi di fabbricazione del prodotto generato in Svizzera (ricerca e sviluppo compresi), mentre Francia e Germania si sono “accontentate” del 45%, rispettivamente del 50%? I nostri criteri del “km zero” sono altissimi. Per il cibo il minimo è l'80% con alcune eccezioni come la carne di maiale, il 100% invece per latte e latticini. Tutto bene, ma se poi il consumatore non “acquista svizzero”?

Se andiamo a vedere i sondaggi sui consumi non si capisce granché. Uno del 2009 recitava che se “nel 2005 il 21% degli intervistati acquistava regolarmente all’estero”, nel 2009 “sono il 16%”, e “soprattutto in Ticino si è riscontrato un netto calo degli svizzeri che si recano in Italia per acquisti”. Al lettore giudicare quanto sia attendibile un sondaggio sul “turismo della spesa” di un grande distributore svizzero.

In un rilevamento sui consumatori romandi nel 2012 emergono altre contraddizioni: quasi tutti d'accordo di pagare “più caro un prodotto di origine svizzera” (ma abbiamo visto che ciò non è sempre giustificato) però “solo se il rapporto qualità/prezzo è più vantaggioso” (ma di vantaggioso in Svizzera non c'è quasi niente rispetto agli altri paesi).

Limitandoci al cibo, un rilevamento non rappresentativo dice che “i ticinesi preferiscono comperare prodotti svizzeri (69%) molto di più rispetto al resto del paese (54%)”. A parte il fatto che abbiamo un potere d'acquisto inferiore alla media nazionale, ma dovremmo intenderci, perché c'è una bella differenza tra “acquistare svizzero” e “acquistare in Svizzera”.

Cento per cento Ticino?
L'impresa di Benjamin ci suggerisce ora un'ipotesi: sarebbe possibile vivere “cento per cento ticinese”? Cioè arredare le nostre case col legno della Leventina, con le serramenta delle industrie del Mendrisiotto, vestirci coi tessuti della Verzasca, alimentarci coi prodotti del Piano di Magadino, ecc.?

Dagli artigiani ticinesi apprendiamo che ci mancano parecchie materie prime e, quando ci sono, sono gestite male o per niente. Per l'argilla o la ceramica per vasi, scodelle e tazze, “i ceramisti non hanno più accesso all’argilla proveniente dal territorio”. Per il legno di sedie, tavoli, armadi, letti, ecc., ma anche per l'edilizia, “mancano depositi disponibili, conosciuti e correttamente catalogati (…) mancano strumenti di formazione o di conservazione”. Per la pietra di muri, case, ponti, strade, ecc., v'è la “difficoltà per i vincoli nell’accesso alla materia prima” in un clima di fortissima concorrenza. Per la lana di calzette, maglioni, sciarpe, cuffie, cappelli, pantofole, peluche, stuoie, tappeti, ecc., sembra che siamo messi un po' meglio. Ma potremmo vivere di sole pecore e di lana?

Col cibo invece il “marchio Ticino” è una realtà voluta da artigiani e contadini locali. Leggiamo che “i prodotti devono essere a base di materie prime ticinesi in una percentuale almeno dell'80% del peso nei prodotti caratterizzanti e almeno del 75% nei prodotti composti (ricette)”. Abbiamo formaggi, latticini, carni, uova, cereali e farine, frutta e verdura, bevande, ecc. Il problema è: basterebbe qualche centinaio di produttori per soddisfare la domanda?

Il tipo di domanda
La soddisfazione della domanda non dipende tanto dall'offerta, ma dal tipo di domanda. Se riducessimo gli sprechi al massimo, se consumassimo (e producessimo) locale tutto quanto è possibile, e soltanto quanto ci serve per davvero, eliminando tutto il superfluo, favorendo l'auto-sostentamento, la stagionalità, la frugalità, il riciclo e lo scambio, generando indotto, nuovi punti di vendita o di prestito, nuovi posti di lavoro, un nuovo orientamento economico sganciato dall'accumulazione, dall'usa e getta, ecc., forse potremmo essere tutti dei “Benjamin ticinesi”.

Resta da capire chi si metterebbe a zappare l'orto o a fabbricare tavoli, ma l'educazione in famiglia e a scuola potrebbe fare molto in tal senso. L'attività produttiva che danneggerebbe questo circolo virtuoso andrebbe chiusa, a favore di altre più innovative ed efficienti.

Proseguendo nella nostra visione nemmeno troppo utopica, dovremmo spostarci soltanto con dei mezzi di trasporto al cento per cento svizzeri. Ebbene, fatta qualche ricerca, non ci resterebbe che inforcare una bicicletta “Simpel” o “Villiger” o prendere soltanto alcuni treni della “Stadler”. Tutto il resto è fatto all'estero. Niente auto, perché l'unico modello svizzero “Ajax” risale ad un secolo fa. Niente moto, le marche elvetiche da “Allegro” a “Motosacoche” sono scomparse. Niente autobus, “Saurer” e “Berna” non ne fabbricano più. Insomma, il “km zero” è una bellissima bicicletta che ci obbligherebbe a pedalare, e anche parecchio. Sarà per questo che non seduce tutti?