Semi acciaccati - La crisi della fertilità maschile

pubblicato da Ticinosette #30 - 26.7.2019
Lo sperma dei giovani maschi svizzeri è tra i peggiori d'Europa, alla stregua di danesi, norvegesi e tedeschi. La nuova conferma è giunta a fine maggio da un gruppo di studiosi di Ginevra che hanno analizzato il liquido seminale di 2'523 reclute 18-22enni. La concentrazione media di spermatozoi per millilitro, la loro mobilità e morfologia sono al di sotto degli standard minimi dell'Organizzazione mondiale della sanità. L'Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP) ha comunicato che indagherà quali “sostanze nocive” sono alla base del problema. Eppure le cause, come certe sostanze chimiche tossiche per la riproduzione e il sistema ormonale, sono almeno in parte già note. Allora cosa frena la ricerca? E qual è il ruolo dell'industria chimica?


Un problema snobbato
Non è la prima volta che la Svizzera studia il problema. La “bassa attività testicolare” dei giovani svizzeri “dovrebbe essere riconosciuta come una questione di salute nazionale”, affermava già il Programma nazionale di ricerca 50 (PNR50), iniziato nel 2002. Si pensa che certe sostanze chimiche prodotte dall'industria e rilasciate nell'ambiente siano tra le cause, ma come si spiega che nel 2019 ancora mancano conferme scientifiche condivise da tutti? Secondo alcune ricerche negli Stati Uniti, uno dei motivi è a monte: mancano specialisti e borse di ricerca. In pratica “la letteratura medica si è tradizionalmente focalizzata sull'infertilità dal punto di vista femminile”, si legge.

Ce lo conferma anche il dottor Alessandro Santi, primario al Centro cantonale di fertilità all'EOC: “in effetti la diagnostica e soprattutto i trattamenti per l’infertilità degli ultimi 40 anni sono concentrati quasi esclusivamente verso la donna” dice. Lo stesso curatore dello studio ginevrino, il genetista Serge Nef, ci dice che l'andrologia “non è un tema di grande successo”, forse perché “per evitare di nuocere alla virilità dell'uomo”, la donna “è stata spesso incolpata per i problemi d'infertilità di coppia”.

Nef non ci ha saputo dire quanto s'investe nella ricerca in andrologia o in urologia in Svizzera, né quanti ricercatori ci sono. Se non si sanno queste cose, forse il tema è davvero snobbato. In Svizzera mancano persino laboratori: senza quelli francesi e danesi lo studio ginevrino non sarebbe stato possibile.

Chimica sotto accusa
Secondo Santi “le ricerche sono rese difficili anche dalla forte eterogeneità delle possibili cause”. È vero, i sospettati sono tanti: dal fumo in gravidanza (vedi più sotto) ai metalli pesanti (piombo), fino alle sostanze chimiche cosiddette perturbatori endocrini (“PE”) come gli ftalati (nella plastica) o i pesticidi (nell'agricoltura). Fino a pochi decenni fa un farmaco contro gli aborti spontanei, il “Distilbène”, era finito sul banco degli imputati: i nati tra gli anni '40 e '80 vennero massicciamente esposti. Risultato: patologie ai testicoli e danni alla qualità dello sperma nei nascituri maschi. Il farmaco fu bandito.

Lo stesso accadde col piombo prodotto dall'industria e contenuto nel carburante fino agli anni '90: il suolo ticinese ormai ne è zeppo, dice un rapporto cantonale, ma poi arrivò la “benzina verde”. E se la sigaretta è ancora perfettamente legale, lo sono anche i famigerati PE. Sono onnipresenti negli oggetti di plastica di uso quotidiano, nell'aria, nel suolo, nell'acqua e quindi anche nel cibo e nei nascituri. Eppure la scienza brancola ancora nel buio: com'è possibile?

Il paradosso vale anche coi pesticidi. La Svizzera, che ne è una grande produttrice, di recente ha deciso di vietare quelli più tossici, però l'industria nazionale può esportarli: è un controsenso ma la legge lo permette. Insomma, se la priorità è la salute pubblica, sembra che gli interessi economici dell'industria, che ha enormi responsabilità, la facciano franca. Cosa non funziona?

Controlli lacunosi
“Le aziende chimiche hanno ignorato la legge per anni e se la sono cavata” ha denunciato di recente l'associazione ambientalista tedesca “Bund” col "European Environmental Bureau" (“EEB”). Motivo: ben “due terzi” delle 700 sostanze segnalate dalle industrie – perlopiù tedesche e britanniche - in tutta impunità non rispettavano la normativa di sicurezza UE 1907/2006, in gergo “REACH”, una banca dati che registra, valuta, autorizza e limita le sostanze pericolose.

Nella lista ambientalista figurano 654 aziende e 41 sostanze “non conformi”, tra cui il “dibutil-ftalato” (o DBP), un famigerato “PE” che è tutto fuorché illegale. Lo possono produrre pochissimi giganti della chimica. Ogni anno l'Agenzia europea dei prodotti chimici, l'ECHA, ha a che fare con tonnellate di nuovi composti industriali. Alcuni plastificanti, solventi, additivi, collanti, pesticidi ecc., sono “estremamente preoccupanti” per l'uomo (“SVHC” in inglese), perché “cancerogeni, mutageni o tossici per la riproduzione” (“CMR”). Per questo in teoria l'industria dovrebbe rispettare le regole, ma in pratica non lo fa.

Per molti critici “REACH” è una buona idea, ma non funziona: lo si riempirebbe “con qualcosa, anche se di scarsa qualità”, inoltre l'ECHA starebbe “dalla parte dell'industria”, denuncia la ONG “CHEM Trust”. “Stiamo lavorando per diventare più efficienti” ha reagito all'inchiesta tedesca l'ECHA. “Saremo completamente trasparenti” e rimedieremo “laddove sarà appropriato” ha replicato la lobby europea del Consiglio Industrie Chimiche (“CEFIC”).

Berna e le lobby
Berna già si adegua alle decisioni dell'ECHA e vorrebbe aderire a “REACH”, eppure siamo gli unici a starne ancora fuori e gestiamo un nostro registro, detto "Organo di notifica per prodotti chimici" a Berna, cogestito dall'Ufficio federale di sanità pubblica. Altri stati non UE (Islanda, Norvegia e Liechtenstein) hanno recepito interamente “REACH”, perché noi no? L'enorme export chimico svizzero, il primo della bilancia commerciale e il secondo dell'UE solo dopo gli Stati Uniti, c'entra qualcosa. Non a caso la potente lobby svizzera “ScienceIndustries” si è sempre opposta a “REACH”, col beneplacito di Berna.

Nel 2012 si negoziò di ridurre i rischi chimici in concerto con l'UE: la lobby chiese di “non inserire sostanze” molto preoccupanti nel diritto svizzero. Mentre scriviamo 12 sostanze “PE” e “CMR” sono già regolate nell'UE, ma non in Svizzera. Nel 2013 Berna si espresse su “REACH”, dicendo che “non può (…) giudicare preponderante” il diritto all'informazione della ricerca pubblica, rispetto “agli interessi dei fabbricanti” per i nuovi composti chimici, e che “REACH” “richiederebbe un investimento considerevole” alle aziende. Prevale il segreto scientifico.

Tra i lobbisti a Berna spicca una certa Magdalena Martullo-Blocher, la miliardaria consigliera nazionale, vice-presidente dell'UDC, presidente di EMS Chemie e membro del CdA della lobby. “ScienceIndustries” non ci ha spiegato perché non vuole “REACH”, né cosa pensa delle sostanze pericolose per il sistema riproduttivo. La portavoce Sabrina Ketterer ci rimanda a un vecchio comunicato: bisogna “basarsi su risultati scientifici, tenendo conto dei loro benefici per la società”, inoltre “la dose è decisiva per gli effetti degli interferenti ormone-attivi”. Sarà, ma per alcune ONG le lobby europee come “CEFIC”, “ECPA” (pesticidi) e “PlasticsEurope” farebbero di tutto per “stravolgere e indebolire” la ricerca scientifica, così da influenzare l'ECHA. Come? Introdurrebbero nei loro studi criteri “non scientifici”.

I vantaggi della Svizzera
La banca dati UE condivisa tra l'industria e l'autorità pubblica funzionerebbe se ci fosse trasparenza e cooperazione, ma è opaca e dà fastidio. “Le autorità svizzere non hanno alcun accesso alle informazioni di 'REACH'”, ci conferma Daniel Dauwalder, portavoce dell'UFSP. Peggio ancora, fatta eccezione per i pericolosi “CMR”, continua Dauwalder, abbiamo informazioni “sui prodotti messi sul mercato in Svizzera, ma non su quelli esportati” nell'UE dai nostri colossi chimici. È paradossale che Berna resti all'oscuro, ma è il prezzo da pagare stando fuori dall'UE, quindi anche dall'ECHA.

Ma se tra le 654 aziende “non conformi” per gli ambientalisti tedeschi non ci sono ditte svizzere, come esportano? E rispettano le regole? “Forse ci sono, ma l'informazione non è pubblica” ci dice Tatiana Santos di “EBB”. Infatti la nostra industria si serve di “rappresentanti esclusivi” nell'UE: sono loro che si occupano di “REACH” ed ecco perché i nomi svizzeri non figurano. Ma non vuol dire che non ci siano, considerando l'enorme export.

Si scopre facilmente nel web che un'industria di Berna tratta un composto tra le 41 sostanze “non conformi” e lo commercia nell'UE coi suoi rappresentanti. A trattare il DBP non sono solo poche aziende UE (una tedesca, una ceca) e non UE (Stati Uniti), ma anche svizzere, come una di Appenzello e una di San Gallo con filiali nell'UE. Quasi tutte quelle non svizzere hanno filiali fuori dall'UE, cioè in Svizzera. Il motivo? Alcuni esperti spiegano che conviene: costa meno esportare, c'è meno burocrazia rispetto a “REACH” e decisamente più segretezza sui composti. Ci restano allora notevoli dubbi. L'industria chimica la farebbe franca a spese della nostra misera fecondità? Forse l'inquinamento chimico in Svizzera è più grave di quanto si creda?


Fumo in gravidanza sotto accusa

Tra gli stili di vita dannosi per la fertilità maschile c'è il tabagismo femminile in gravidanza. Il nesso è confermato anche nello studio svizzero: “influenza lo sviluppo testicolare e di conseguenza la quantità di spermatozoi prodotti” nei nascituri maschi, affermano da Ginevra. Numerosi altre ricerche concordano. Eppure è perfettamente legale. Tra le donne in gravidanza, i sondaggi federali negli anni indicano un trend in calo, ma preoccupante. Nel 2001-2005 c'era “una prevalenza del 13 % del consumo di tabacco tra le donne incinte”, mentre nel 2011-2016 la percentuale era del 7%.

Tuttavia nello stesso periodo ben il 43% delle fumatrici “continua a fumare dopo aver scoperto di essere incinta”, il 40% “dichiara di aver ridotto il consumo” e quasi il 4% “continua a fumare come prima”. Più cresce l'età, meno si fuma in gravidanza. Quasi il 90% delle 18-28enni “dice di non fumare o di non fumare più”, contro il 96 % delle 35-44enni, ma l'1,4% delle più giovani “fuma come prima della gravidanza”. Il guaio è che proprio tra le più giovani il vizio è in crescita. “Le fumatrici rischiano di essere più numerose dei fumatori di oggi” si diceva già nel 2003, e “tra i giovani, il numero delle fumatrici ha già raggiunto quello dei fumatori”. Nel 2008-2012 fumava il 24% delle donne, nel 2017 il 23%. Le ex fumatrici dai 35 anni in poi sono di meno (20%) degli ex fumatori (39%) tra 55 e 65 anni.

Nel 2016 la Svizzera italiana aveva una prevalenza del tabagismo “più elevata” del paese dai 15 anni in poi: 30.5% contro 27% (Romandia) e 24,3% (Svizzera tedesca). Vari studi spiegano il tabagismo femminile soprattutto per motivi socioculturali: l'emancipazione, il timore di aumentare di peso, lo stress ecc. L'industria del tabacco ha trovato nelle donne un nuovo ed enorme bacino di consumatrici, a spese però della fertilità maschile. Ma le donne in politica, specie quelle del PPD per cui la procreazione naturale è un tema politico, ne sono consapevoli? Nelle mozioni anti-fumo della deputata ticinese e mamma Nadia Ghisolfi non se ne parla. L'infertilità maschile, ci ha risposto Ghisolfi, “negli studi ai quali ho fatto riferimento non emergeva e quindi non l’ho citato”, ma è “un grave problema” che va “sollevato ed affrontato”, ci dice.


Sempre più tumori ai testicoli

È raro (solo l'1-2% di tutti i casi di tumore maschile), ma da almeno 35 anni nel nostro paese il tumore ai testicoli “è molto elevato se comparato ad altri paesi” afferma lo studio ginevrino (vedi articolo principale). Si contano più di 10 casi ogni 100mila uomini. Si ipotizza una correlazione tra l'alta incidenza di questo tumore e la bassa qualità spermatica. L'ipotesi causale è che vi sia “un'alterazione dello sviluppo testicolare allo stadio fetale”, cioè nella pancia delle madri. Altre ricerche confermano la tendenza. Saremmo infatti il secondo paese industrializzato messo peggio, afferma uno studio del 2015, come la Norvegia e dopo la Danimarca, dove è pure constatato il peggiore sperma al mondo. I più colpiti sono i giovani sotto i 26 anni, la fascia più a rischio tra i 16 e i 30 anni, soprattutto nella Svizzera tedesca. Il fattore etnico sembra incidere: si ammalano molto meno africani e asiatici rispetto ai caucasici.

Sia l'oncologo grigionese Richard Cathomas, sia l'urologo basilese Gernot Bonkat, confermano questo primato elvetico. Per la Lega svizzera contro il cancro ogni anno si contano circa 400 nuovi casi, un dato confermato dalla statistica federale nel periodo 2008-2012. A dicembre 2018 si contavano 459 nuovi casi. In Ticino il registro cantonale dei tumori riporta una media annuale di una 15ina di casi, 336 quelli riscontrati dal 1996 al 2017. L'incidenza tra il 1983 e il 2007 è salita al 22%. Per fortuna la mortalità è bassissima: oltre 9 uomini su 10 sopravvivono. Presunte cause quali le onde dei cellulari, fare molto sesso, gli indumenti attillati, il ciclismo ecc., non trovano riscontri scientifici. Le cause più accreditate sarebbero congenite, lo stile di vita (cibo, tabagismo) e ambientali (sostanze chimiche).