Gli occhi su Lugano

pubblicato da Ticinosette #20 - 15.5.15

Come è nato e perché il progetto “SecurCity”? È stato discusso in modo democratico? Si basa su dei dati oggettivi? E la tecnologia è davvero affidabile come si vuol far credere?...

Da alcuni mesi è operativo a Lugano il progetto di videosorveglianza “SecurCity”, voluto per motivi di sicurezza nel 2009 dall'ex municipio a maggioranza leghista-liberale. In aprile è stato presentato dal comune e dalla polizia, sembra che vi sia molta euforia e grandi aspettative. Ma cosa dobbiamo aspettarci? E come si è arrivati a ciò? E perché l'Inghilterra, che ha il record mondiale di telecamere su suolo pubblico, già nel 2005 concludeva che “la videosorveglianza (…) è costata ingenti somme di denaro e non ha generato i vantaggi previsti”, mentre a Lugano si pensa il contrario?

La polizia ci crede
Avevamo incontrato a metà dicembre il comandante della polizia comunale Roberto Torrente che ci ha detto: “abbiamo 68 telecamere per il traffico su Lugano, fino a Savosa e verso Vezia, rispettivamente 72 riservate soltanto per la sicurezza, di cui il 95% si trova in centro nella zona pedonale”. Verranno poi integrati i circuiti video di negozi, autosili, immobili privati; installate delle “body-cam” sull'uniforme degli agenti e ci saranno “le telecamere anche sulle nostre macchine quando si inseriscono i fari blu di emergenza. Ci permettono così di poter disporre, in caso di necessità, di un documento sullo stato di quanto constatato al momento che la pattuglia è giunta sul luogo dell'intervento e, non da ultimo, se capitano degli incidenti, si può ricostruire qual è la dinamica e di chi è la colpa” ci ha spiegato Torrente.

Secondo la polizia il sistema, costato 3,5 milioni di franchi, manutenzione esclusa, è utile e il numero di telecamere “è proporzionale all'obiettivo che si vuole raggiungere: se voglio essere efficace devo avere un sistema che mi copre le vie di accesso e di fuga, quindi per forza bisogna mettere le telecamere che mi permettono di seguire cosa è successo”.

Sempre più controllo
Per Eric Töpfer dell'Università Tecnica di Berlino ci sono almeno tre motivi per cui anche Lugano crede in questo sistema: un “nuovo paradigma” (si pensa che il reato non dipenda più dal singolo, ma si generi presso gruppi o luoghi specifici), il “city branding” (si valorizza una città col tema della sicurezza), un “decentramento” di competenze (lo Stato delega il compito ai comuni). Resta il problema della “privacy” e del controllo.

Nel primo caso, Torrente ci ha detto che “abbiamo un regolamento, il municipio delega a me il compito di salvaguardarne l'uso corretto, cioè su richiesta del magistrato o della polizia cantonale a scopo d'inchiesta, oppure del servizio giuridico della città per eseguire delle contravvenzioni municipali”.

Questo regolamento venne abbozzato nel 2006: si parlò di 48 ore di tempo per conservare le immagini, ma nel 2007 si decise per 100 ore. Ora Torrente ci dice che auspicherebbe persino 100 giorni. Per quanto concerne la “privacy”, la polizia non vede molta differenza tra spazi pubblici e privati.

Dice Torrente: “se andiamo al casinò ci sono decine di telecamere che ci osservano, nei grandi magazzini altrettante, ai distributori di benzina, al bancomat, ecc. La nostra vita, su suolo privato, è già tutta videosorvegliata, ma se lo facciamo sulla pubblica via per garantire maggiore sicurezza, paradossalmente siamo criticati, quando nessuno critica le telecamere nei negozi”.

Come dice Richard de Mulder, dell’Università di Rotterdam, “sorvegliare i cittadini: nessun problema... ma chi sorveglia i sorveglianti?”. Già, una domanda opportuna in Ticino: questa figura indipendente è vacante dalla scomparsa dell'ex reponsabile Michele Albertini. Chi sta controllando i comuni e la polizia? A quando un sostituto?

Dipingere un quadro
L'accettazione di una minore libertà (maggiore controllo) in cambio di una maggiore (auspicata) sicurezza, crediamo dipenda dal grado di democrazia e di indipendenza del processo politico. “SecurCity” si basa tuttavia sulla consulenza di una “primaria società esperta del settore”, quindi non indipendente. Domanda: avrà dipinto un quadro realistico o uno più pericoloso della realtà?

Ce lo chiediamo perché nel testo municipale non c'era un solo dato criminologico serio, siccome “la statistica non ci permette di suddividere ancora i diversi reati per i singoli quartieri”, dirà l'ex municipio alla Commissione della gestione. Come poteva l'ex municipio dire che “è quindi possibile e probabile che i dati forniti (sui crimini, ndr.) possano solo essere ritoccati verso l'alto”?

Oggi non a caso le sole “persone controllate” dalla polizia di Lugano dal 2010 al 2013 smentiscono questa tesi (si vedano i dati a consuntivo, ndr.). Così come viene contraddetta tale visione nel 2012 dallo stesso municipio, che definisce Lugano il “primo centro urbano più sicuro della Svizzera” e “la prima città ticinese con meno reati legati al consumo e spaccio di stupefacenti”.

E ancora, si disse di aver “affrontato e discusso in modo comune ed efficace” il tema, raccogliendo le “sollecitazioni” dei commercianti e prendendo atto del “sentimento di insicurezza espressa dai cittadini su fatti criminosi recenti (via Nassa, Loreto, Paradiso, ecc.)”. Ma si fecero dei dibattiti pubblici o nei quartieri, come auspica la “Carta europea per un utilizzo democratico della videosorveglianza”? Se sì, vennero ascoltati tutti i cittadini o solo quelli di vie e quartieri della cosiddetta “Lugano bene”?

“Libertà e democrazia”
Dei pochi dati sui reati in città, vennero forniti proprio quelli sulla centralissima Via Nassa, sede di negozi e marche di lusso. Dell'intera città si sapeva soltanto che, dal 2005 al 2009, conobbe circa 15mila reati (aggressioni, furti, vie di fatto, rapine), di cui solo il 23% nel centro. Degli altri quartieri, nulla. Le paure dei commercianti furono quindi centrali.

Infatti, mentre il consiglio comunale ancora cercava di capirci qualcosa del progetto, inviarono ai politici comunali una lettera assai perentoria. Vi si legge che, oltre al diritto di essere tutelati come contribuenti, poiché “riteniamo di vivere in un paese libero e democratico”, i negozianti “faranno il possibile affinchè il progetto Securcity sia portato a termine”, perciò “sia chiaro a tutti i membri della Commissione della Gestione che, ostacolando il progetto Securcity, si assumono una grossa e pesante responsabilità”.

Ma a quale libertà e a quale democrazia si alludeva? Forse a quella che, sempre nel 2009 e con l'appoggio dell'ex sindaco, condusse all'allontanamento di alcuni profughi alloggiati in un albergo della via? O forse a quella del 2014 che indusse un negozio a cacciare dalla pubblica via un suonatore ambulante?

Questioni di proporzione
Di fatto le telecamere oggi sono quasi il triplo delle 35 di cui si parlava nel 2009 per la “sola area centrale della città”. La superficie della zona pedonale venne espressa in metri quadrati (“circa 180'000 mq”): forse perché 0,18 chilometri quadrati potevano dare l'idea di un'area esigua? Vorremmo capire di quale “proporzionalità” si sta parlando.

Nel 2006 l'ex municipio proponeva che “va evitata la rilevazione di dati in aree o attività che non sono soggette a reali e concreti pericoli”, ma poi questo concetto scomparve dal regolamento del 2007, ancora oggi in vigore. Perché? Forse perché così si sarebbe potuto sorvegliare, qualora lo si valutasse necessario, anche delle zone tranquille? Be', è ciò che è avvenuto, malgrado la contrarietà del consiglio comunale, col piazzale delle ex-scuole (dietro la pensilina dei bus) frequentato da diversi giovani, zona che per Torrente, ci ha detto, è “a rischio”.

Ma quanto è democratico ciò? Che senso può avere, infine, un “confronto” tra abitanti e numero di telecamere della città di Londra e del comune di Milano con Lugano? Furono considerati dei fattori specifici come la densità abitativa, la dispersione urbana, l'architettura (la densità e la volumetria dell'edilizia) che – va da sé - influenza la visuale e quindi il numero di telecamere? Oppure le abitudini sociali, diurne e notturne, degli abitanti e dei vari quartieri?

Riconoscimento efficace?
La tecnologia suscita grandi aspettative. A volte genera inconvenienti che molto spesso tendiamo a risolvere con altra tecnologia. Succede anche con la videosorveglianza e le moltissime immagini registrate per cui, ci ha detto Torrente, “devo poter disporre di un programma che non mi obblighi a guardare tonnellate di materiale, ore e ore di filmati”.

Questo programma, afferma l'azienda fornitrice Dos Group, “(…) permetterà di identificare, classificare e archiviare immagini di persone e oggetti in movimento (…) in base alla richiesta degli agenti (…) e di restituire risultati di ricerca dall’archivio (p. es. 'mostra tutte le vetture verdi transitate sulla via il 5 marzo')”. Ma quanto possiamo fidarci?

La fondazione “Electronic Frontier” di difesa delle libertà civili, dice che la precisione del software (su base algoritmica e sulla vastità della banca dati) è più una questione di marketing dei fornitori che altro. L'anno scorso la CBS News ha sollevato parecchi altri dubbi sul riconoscimento facciale in Canada, e lo stesso ha fatto il “Los Angeles Times” sulle “body-cam” degli agenti.

Noi stessi abbiamo visto che certe telecamere possono essere inutili a causa di un albero o di un'insegna stradale. Per tutti questi motivi il criminologo inglese Peter Squires è scettico quando il tema finisce nelle mani dei soli politici o delle sole forze di polizia, perché “mostrano interesse a provare qualsiasi nuova tecnologia per il controllo della criminalità”.

Solo la pratica sul terreno dirà se “SecurCity” serve a qualcosa, ma una cosa è certa: con questo “non possiamo prevenire il reato al momento in cui si svolge, ma possiamo ricostruirlo e avere un'ottima chance per perseguire l'autore” dice Torrente. Ma è anche vero che, malgrado le immagini, ci sono parecchie inchieste di polizia irrisolte.