Scuola sempre più rosa

pubblicato da Azione #50 - 8.12.14

Nella scuola ticinese la professione di insegnante sta diventando sempre più femminile, ma alcuni esperti mettono in evidenza anche degli aspetti negativi di questa tendenza...

Anche la scuola ticinese è sempre più “rosa”: il 60% circa di tutti i docenti è composto da donne (dati 2011/2012). Stando al censimento dei docenti 2012/2013, l'educazione nelle scuole dell'infanzia (89% di donne), elementari (69%), speciali (80%) non è più quindi la sola ad essere, storicamente, “monopolizzata” dalle donne. Da qualche anno anche alle medie le “prof” sono più numerose dei colleghi uomini: “oggi nella scuola media il numero di docenti-donne è superiore a quello dei docenti-uomini” conferma Francesco Vanetta (Ufficio insegnamento medio), ovvero oltre il 57%. La percentuale aumenta tra i giovani docenti: “più di due docenti su tre sono donne (68,2%)”. In futuro si prevede una maggiore femminilizzazione della professione e la tendenza è identica in tutto l'Occidente.

La “scomparsa” dei docenti maschi in questi livelli scolastici è un fenomeno ancora più marcato nel resto della Svizzera, soprattutto a causa della penuria strutturale di insegnanti, da cui al momento il Ticino è al riparo. “La Regione” nel 2010 ha riportato la notizia secondo cui in sei cantoni svizzero tedeschi da alcuni anni sono allo studio misure per addirittura "defemminilizzare" il mestiere. Peggio ancora in Italia, dove le donne sono in media oltre il 75% della categoria e c'è chi, come l'insegnante e scrittore italiano Giuseppe Caliceti, nel suo libro “Una scuola da rifare: lettera ai genitori”, afferma ormai che l'istituzione è “infetta da una malattia: il mammismo”. Forse il tono è un po' provocatorio, ma si tratta di un dibattito di società importante che non riguarda solo la scuola. Il canton Ticino sembra al momento ignorarlo o, quantomeno, sottovalutarlo.

La rivista di settore "Scuola ticinese" ad esempio non vi ha mai dedicato spazio, mentre il tema non appare nemmeno percepito allo stesso modo dallo Stato. Nel 2010 l'ex capo della Divisione della scuola, Diego Erba, a "La Regione" definì la questione come una “piccola difficoltà”. Quest'anno, il suo successore Emanuele Berger ha detto al "Giornale del popolo" che invece “non è assolutamente un fatto negativo”, ma piuttosto un problema “burocratico” per la “costruzione delle griglie orarie con l’inserimento di numerosi tempi parziali”.

Studi ed esperti ravvisano già delle controindicazioni, anche importanti, sia per gli allievi maschi (data l'età sensibile degli 11-15enni), sia per le docenti donne. Secondo lo psicanalista Claudio Risè, citato nel libro "Scuola di follia" curato dal medico Vittorio Lodolo d'Oria, specialista del disagio mentale dei docenti, le conseguenze per lo sviluppo socio-cognitivo degli alunni sono “molto gravi”. “C'è ormai una psicologia della scuola femminilizzata”, spiega Risè, cioè “non è più dinamizzata dal confronto (a volte dal contrasto)” tra la figura della donna-madre e quella dell'uomo-padre, il cui aspetto psicologico fondamentale è “la trasmissione del significato della perdita”. Perciò, afferma, “una scuola senza maschi-padri è una scuola che non insegna a perdere. E, quindi, non assicura nessuna vittoria”.

Le conseguenze sono “disastrose” per Barbara Mapelli, esperta di pedagogia delle differenze all'università Bicocca di Milano. “Vengono meno figure maschili autorevoli di riferimento che sarebbero importanti per i bambini e per i ragazzi, che in genere hanno come unico parametro il padre, spesso assente. Inoltre molti di loro vivono la scuola come un luogo di donne, dalle quali mantengono un certo distacco e diffidenza. (…) Il fenomeno ha conseguenze disastrose: gli uomini leggono meno, vanno meno a teatro, al cinema, rendono meno a scuola in termini di voti e si laureano meno delle donne” ha dichiarato in settembre a “Il fatto quotidiano”.

Alessandra La Marca, docente universitaria di pedagogia e didattica a Palermo e Messina, nel suo libro “L'educazione differenziata per le ragazze e per i ragazzi. Un modello di scuola per il XXI secolo”, va ancora più lontano: “la femminilizzazione del corpo docente e delle professioni educative in generale tende a far adeguare i ragazzi ai comportamenti delle ragazze”, quindi “i ragazzi trovano pochi educatori di sesso maschile da prendere come modello proprio mentre l'odierna crisi della figura paterna li richiederebbe”.

Sul fronte delle insegnanti il fenomeno tenderebbe ad accrescere il disagio personale. Lodolo d'Oria sostiene che la scuola "troppo rosa" “in parte alimenta e accresce la delega educativa famiglia/scuola” tra la madre (sempre più anche donna-lavoratrice) che affida i suoi figli alla docente (donna-insegnante), la quale spesso e volentieri, proprio perché donna, “non riesce a sfuggire al suo compito educativo”. E proprio questa delega di responsabilità educativa, un tempo prerogativa della famiglia tradizionale, spesso fonte di conflitto coi genitori sempre più "sindacalisti" dei loro figli, è uno dei motivi principali del crescente malessere tra la categoria (gli altri sono la mole di lavoro e il disturbo da parte degli alunni problematici).

Uno studio recente e rappresentativo dell'Alta scuola pedagogica del nord-ovest della Svizzera che ha interpellato 600 insegnanti in tutto il paese, afferma: “le donne e i docenti a tempo parziale con un'occupazione elevata da 22 a 25 lezioni a settimana sono toccati maggiormente“ da varie problematiche, così riassunte: uno su cinque ha difficoltà sul lavoro, uno su tre soffre a volte di depressione, un altro terzo dice di essere al limite del “burn-out” (una sorta di apatia nei confronti di studenti, colleghi, genitori, dovuta a frustrazione con conseguenze psico-fisiche e sociali). Rallegra comunque il fatto che l'87% di loro dice di amare il proprio mestiere.

Un ultimo aspetto da indagare è quello a cui, ad esempio, ha accennato nel 2011 il docente Fabio Pusterla: quanto è attrattivo il mestiere e quanto un “ripiego”? Per Pusterla “la femminilizzazione della professione, che naturalmente è anche il segno positivo di una emancipazione culturale, può essere letta con un poco di preoccupazione: in molti casi, l'insegnamento sta forse diventando (...) la professione delle mogli, il cui marito o compagno si occupa di attività più remunerative e più socialmente considerate”. Così ha detto al convegno dell'Associazione per la scuola pubblica del Cantone e dei Comuni. La preoccupazione è condivisa anche dal Movimento della Scuola e dai sindacati.

Già, perché ad oggi, nonostante l'Alta scuola pedagogica e il Dipartimento formazione e apprendimento (Dfa) della Supsi, in Ticino nessuno sa quanto interesse reale suscita ancora l'insegnamento. C'è ancora una certa vocazione/passione o allettano di più le tante settimane di vacanza, uno stipendio buono, il “posto fisso”, ecc.? È “fondamentale” saperlo, riconosce lo studio Supsi del 2010 “Scuola a tutto campo”. L'ipotesi che va per la maggiore per confermare l'attrattiva, è quella dell'alto numero di candidature ai concorsi scolastici e di iscrizioni al Dfa. Ma ciò non dimostra nulla, è una “ipotesi un po' grossolana”, riconosce lo studio Supsi, mentre “sarebbe però estremamente interessante discutere criticamente la procedura di selezione” dei docenti.

In effetti nemmeno le molte iscrizioni nei licei o alle università significano che vi sia un risveglio delle vocazioni, anzi. Studi statunitensi del 2003, citati nel documento, affermano che “un fattore importante è quello delle condizioni di lavoro offerte, tra le quali ha un posto di riguardo il reddito”. Studi francesi del 2005 indicano che il desiderio di educare/insegnare è invece preponderante. In Ticino (e in Svizzera) queste conoscenze appaiono ormai urgenti, a maggior ragione in un sistema nazionale che si vuole armonizzato (“Harmos”) dall'anno prossimo.

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