photo Robert Hofer


Guardiani della terra

pubblicato da TicinoSette #39 - 28 settembre 2012

"Il mondo è fatto di grandi tecniche, lo scultore deve fare delle opere ancora più grandi". (Ivo Soldini)...

Non si può non condividere la citazione che ho preso a prestito dallo scultore ticinese. Mi sono bastate poche battute, semplici ed essenziali, come la sua cinquantina di opere, per capire quale atmosfera si sta respirando nell'urbano della capitale vallesana, a Sion. Non credo che stesse semplicemente giustificando l'imponenza delle sue sculture, di quei "guardiani della terra", così mi piace interpretarli. Presenze apparentemente ingombranti che la sua mente riflessiva ha generato e che le sue mani pazienti hanno modellato, ma che io, profano di quest'arte e soprattutto del suo mondo interiore, immagino più volentieri originarsi dalla terra stessa, dalle viscere calde e tumultuose del sottosuolo, proprio sotto lo storico selciato di Sion. Così come il loro bronzo è per definizione una miscela di altre cose, così la loro resina sintetica è artificio, artificio dell'umano che pensa e che comunica. "Uno sforzo enorme" mi confida ancora l'artista, certo, il che spiega solo in parte perché di "open-art" monumentale non se ne faccia molta. L'ultima a cui ho assistito, guarda caso, sempre in Vallese, a Verbier l'estate scorsa: sculture gigantesche di artisti quali Donna Dodson e Zak Ové, installate sui terrazzamenti delle montagne circostanti il rinomato villaggio.

Rapporti dimensionali e di forza
Come in quell'occasione, anche le creature di Soldini forse sono state trasportate dal cielo, come meteoriti significanti, ma non importa. Il concetto e la filosofia intrinsechi invece sì, perché lui dice solamente che l'umano, che sta leggendo, colui che scrive, è infinitamente superiore alla tecnica, avendola creata, ancor più al discorso del saper fare, la tecnologia. Deve esserlo, e non deve invece esserne vittima o passivo spettatore. Le sue statue umanoidi sono a volte rette, a volte inclinate, ma sempre lì, superiori, a comunicare una presenza, a mo' di sfida con la natura circostante, uomini, donne, cittadini. Lì a simboleggiare la fatica della vita e il peso della coscienza, grezzamente definite perché da lontano son viste e da vicino vanno, semmai, toccate o rifuggite. Sigilli tridimensionali rassicuranti, nevvero, in tempi di profonda insicurezza, guardiani di luoghi troppo spesso abbandonati dalla nostra superficialità, laddove un tempo l'uomo vi vide solo distruzione e profitto personale. Ecco che queste sentinelle, uomini e donne, soli o in gruppo, esplicano la loro funzione esistenziale sopra e tra la violenza del cemento, tuttavia così ordinato e geometrico. Ma soprattutto di resistenza ad un grande mondo incontrollabile ed irruente, fatto di piccoli e presuntuosi esseri. Presenze resistenti, dunque, che testimoniano "il rapporto di noi umani sulla Terra, in questo momento complesso ma anche forte", mi dice ancora Soldini. Quell'oggi difficile, fatto appunto di nuove difficoltà ma proprio per questo per nulla scontato, anzi vivace e caldo.

La presenza del passato
E dove, questi guardiani, potevano avere un senso se non a Sion, terra preistorica più volte teatro di scempi e di violenze, che accolse i Celti, popolo combattente e cultore del bronzo? Dove se non tra quelle vie di distruzione e di saccheggi perpetrati sino alla seconda metà del Quattrocento, finché difesa ad oltranza durante la bataille de la Planta? Dove se non in quel cuore cittadino completamente bruciato alla fine del Settecento e interamente ricostruito? Forse una coincidenza, fortunata in ogni caso, quella che il percorso espositivo passi proprio dall'omonima Place de la Planta. Forse, o forse no. Scrive Rolando Bassetti, storico dell'arte e tra gli organizzatori dell'evento: "il mutare delle prospettive, l'acciottolato della pavimentazione delle strade, le piazzette nascoste, i materiali e le linee pure dell'architettura fanno della capitale vallesana un luogo propizio al dialogo tra l'artista, la città e la gente che vi abita". Lo scopo ultimo, lo avrete capito, è "portare l'arte al centro dell'Agorà". Cosa che in Ticino, di recente, solo a Lugano si fa. Tra le piazze, le case, i balconi, i parchi della gente. Illuminati da quel sole che vigneti e albicocche conoscono bene, integrati in prospettiva tra quelle montagne famose d'inverno, all'ombra dei castelli cittadini, ai loro piedi la notte, ma sempre visibili. Almeno fino al 6 ottobre prossimo...