L'affare eritreo

pubblicato da Ticinosette #14 - 1.4.2016

Migrazioni. Gli eritrei rappresentano la maggior parte dei rifugiati presenti oggi in Svizzera. Ma cosa sta realmente facendo il nostro paese in merito?

Dal 2007 l'Eritrea è il principale paese di provenienza dei profughi in Svizzera. Nel 2015 ne sono arrivati quasi 10mila, oltre 3mila in più dell'anno precedente, scrive la Segreteria di Stato della migrazione (Sem). Seguono gli afgani (7'831 domande d’asilo), i siriani (4'745) e gli iracheni (2'388). Come mai è proprio l'Eritrea in testa alle richieste di asilo e non altri paesi dilaniati dalla guerra civile e dai bombardamenti stranieri?

Una rotta lucrosissima
Rispetto alla “rotta balcanica” (Turchia, Grecia, Bulgaria, Serbia, ecc.) gli eritrei seguono la “rotta libica” che porta dritto verso il Ticino. Il viaggio, che può durare da uno a più mesi, inizia con l'attraversamento della frontiera col Sudan, corrompendo certi alti funzionari eritrei con “3'000 franchi”. A bordo di “fuoristrada dei trafficanti” alcuni raggiungono poi l'Egitto, afferma la Polizia federale elvetica (FedPol).

Da qui accedono alle coste della Libia, dove aspettano di potersi imbarcare per l’Italia, direzione Lampedusa. Secondo la FedPol il viaggio in mare costa “dai 500 ai 1'500 dollari americani”. Quelli che ce la fanno vengono poi “smistati” a Milano e “dal Ticino vengono fatti entrare illegalmente” in Svizzera. Si stima che ogni mese 5mila eritrei tentino così la fortuna.

A guadagnarci sono soprattutto le reti di trafficanti. Lo scorso aprile la polizia italiana ne ha sgominata una, ma uno dei capi, un eritreo, agirebbe tuttora indisturbato in Libia. Se soltanto la metà dei profughi giunti in Svizzera l'anno scorso si fosse rivolta a questo criminale, i suoi guadagni sarebbero milionari. Dove finiscono i soldi? Secondo le indagini italiane anche nelle banche svizzere.

Inchieste giornalistiche sullo scandalo “SwissLeaks” affermano che altri importanti flussi di capitali avrebbero origine eritrea: nel 2015 “una parte dei guadagni di Asmara (la capitale eritrea, ndr.) provenienti da attività illegali del regime è transitata tramite conti a Ginevra e a Zurigo”. La Svizzera non ha del resto mai concluso un accordo con l'Eritrea nell'ambito della “strategia del denaro pulito”.

Le condizioni di accoglienza
Nell'era dei cellulari le informazioni circolano velocemente tra i migranti. Sanno benissimo a quali politiche di asilo vanno incontro e come vengono alloggiati. La Svizzera, distinguendo tra lo statuto di “rifugiato” (permesso N) e quello di “ammissione provvisoria” (permesso F), è meno gettonata di altri paesi.

“Un siriano che chiama dalla Turchia suo cugino, che vive in Svizzera e che gli racconta di essere da più di tre anni in attesa di una risposta, mentre un altro cugino in Germania gli dice di aver appena ottenuto l’asilo, fa presto a scegliere” ha detto un funzionario del servizio per i migranti del canton Vaud in un reportage.

Anche le condizioni di alloggio possono essere un incentivo o un deterrente. In Svizzera si tratta soprattutto di bunker sotterranei della Protezione civile oppure di strutture di montagna. “Ero sorpreso quando ho scoperto che ci avrebbero messi sotto terra. Non ho fatto tutta questa strada per vivere sotto terra” ha affermato nel reportage un somalo di 19 anni da un bunker di Montreux. Si parla anche di malattie, depressioni, perdita della nozione del tempo.

Succede anche in Ticino, dove un gruppo di eritrei è stato alloggiato a oltre mille metri d'altitudine in un'ex scuola a Peccia, in Val Lavizzara. Hanno contestato l'isolamento rispetto al centro per asilanti di Losone. Il sindaco della località montana ha riconosciuto che “psicologicamente può non essere facile”. Ma c'è un altro motivo ben più importante: i connazionali già espatriati.

L'importanza della diaspora
“Nel percorso dei migranti la diaspora gioca un ruolo molto importante” dichiara nel citato reportage Stefan Frey, portavoce dell’Organizzazione svizzera di aiuto ai rifugiati. Si parla così la stessa lingua, si coltiva la stessa cultura.

Dati precisi non ce ne sono, così come non è neppure sempre certa la nazionalità dei profughi, ma è proprio la diaspora eritrea la più numerosa in Svizzera: conterebbe 20-25mila cittadini. Quella siriana (nel 2012) contava nemmeno 500 persone, quella afgana quasi 3'600.

Da chi è composta quella eritrea? Da disertori, uomini e donne tra i 15 e i 30 anni, che fuggono dall’obbligo del servizio militare che dura diversi anni, dalla povertà e da una dittatura ultra ventennale guidata da Isaias Afewerki, leader dell'indipendenza (mai risolta) dall'Etiopia nonché del “Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia”. Il Consiglio di sicurezza dell'ONU ha già inflitto una serie di sanzioni all'Eritrea, l'ultima nell'ottobre 2015, ma stranamente non c'è ancora una lista di nomi, enti o organizzazioni da sanzionare.

Il Consiglio federale sostiene che è “uno Stato mono-partitico autocratico con libertà di opinione e di stampa molto limitata”. Tutti i rapporti indipendenti sull'Eritrea, eccetto uno danese, concordano con questa versione. In internet c'è chi tuttavia denuncia una diffamazione sistematica del paese in Occidente, il tutto orchestrato dal nemico governo etiope.

Alcuni politici svizzeri, recatisi di recente in loco, hanno smentito la gravità della situazione1, ma non hanno visitato le prigioni che sono inaccessibili persino alla Croce Rossa. Afewerki starebbe soltanto conducendo una campagna di marketing proprio in un periodo in cui l'ONU sospetta il regime di aver commesso crimini contro l'umanità.

Finanziamenti controversi
La politica di destra contesta il fatto che i profughi eritrei intascano la gran fetta degli aiuti sociali pur avendo il diritto di lavorare. Ma chi li assumerebbe? Inoltre fa tuttora discutere quanto ammesso già nel 2013 dal Consiglio federale: il regime di Afewerki incassa, legalmente, una tassa del 2% sugli introiti della diaspora, quindi anche sui sussidi sociali.

Non è chiaro se è obbligatoria o volontaria, ma è il Consolato di Eritrea a Ginevra, il cui console è il controverso ginecologo argoviese Toni Locher, che la riscuote, fornendo persino cedole di versamento e l'apertura di conti bancari. Ma perché versare soldi al regime da cui si fugge? Il Consiglio federale dice che la tassa “è utilizzata per la ricostruzione del Paese” ma non sa se è vero.

Per l'antropologo David Bozzini, esperto di Eritrea, serve per “corrompere i funzionari per poter lasciare il paese”, il quale ha “l'interesse a lasciar partire un certo numero di coscritti i quali, in seguito, sono spinti a pagare”. Per l'ONU è “probabilmente la più significativa fonte di guadagno” del partito di Afewerki.

La FedPol segnala inoltre un nuovo fenomeno: gruppi della diaspora “sarebbero coinvolti nel traffico di cittadini eritrei dall’Italia verso la Scandinavia passando dalla Svizzera”. Qualunque sia la verità il flusso di denaro tra i due paesi è probabilmente enorme.

Dal 2009 la Svizzera, firmataria della Convenzione ONU contro la corruzione, ha l'obbligo di identificare fondi illeciti come potrebbero essere quelli eritrei: è stato fatto? Dal 2010 può sanzionare l'Eritrea per esempio bloccando fondi in giacenza: è stato fatto?

Siccome il problema è il regime, allora perché la Svizzera “non è attiva in Eritrea” e “non svolge alcun programma di sviluppo”, mentre l'Unione Europea ha di recente stanziato 200 milioni di euro (ufficialmente) contro la povertà nel paese? Insomma, la Svizzera sta facendo abbastanza?