Un'ottima idea?

pubblicato da TicinoSette #48 - 29.11.2013

Quali alternative alla standardizzazione dello stile? Dagli oggetti di uso quotidiano all'arredamento delle nostre case, la critica del consumo e lo spreco delle risorse impongono una svolta che riguarda tutti, clienti, progettisti, artigiani e aziende....

Prendiamo una poltrona. Immaginate che qualcuno (il designer) ne abbia pensato forma, dimensione, colore, materiale e via dicendo; che qualcun altro (un'azienda) abbia creduto all'idea e, ritenendo che ci sia una domanda, l'abbia quindi prodotta e venduta; che altri ancora (noi) l'abbiano poi di fatto acquistata, perché bella, comoda o a buon mercato. Ora magari vi siete comodamente seduti sopra, tranquilli e contenti. Ma se sapeste che non l'avete comprata in piena libertà, che la stessa si trova in centinaia di altri salotti, che centinaia di altre poltrone identiche sono rimaste invendute, sprecando risorse ed energia, sareste ugualmente tranquilli e contenti? Forse non dovreste, perché è proprio in questi termini che il design di massa, in una società in cui l'artigianato scompare sempre più e le conseguenze ambientali del consumismo si fanno sempre più evidenti, viene messo in discussione.

La fine del design?
Il concetto di design industriale, di consumo o di massa, in teoria è molto semplice: "è fatto di quattro componenti: progetto, produzione, vendita e consumo" spiega il noto storico dell'architettura Renato De Fusco. In pratica però è più complesso per le sue molte implicazioni e non a caso è in crisi almeno dagli Settanta. Scrive la designer francese e docente universitaria Stéphanie Sagot: "la fatalità di uno standard industriale di massa è contestato. Il circuito di produzione non si rivolge più a una maggioranza egualitaria. Si afferma il diritto alla differenza nei comportamenti individuali e il design funzionalista vive un brusco rifiuto da parte del pubblico" (1).

Se la creatività umana non ha limiti, a che punto siamo? Perché, o meglio, per chi, come e con quali conseguenze progettiamo? Tra gli esperti non c'è chiarezza. Enzo Mari, noto per le sue posizioni etiche, afferma: "che il design non esista più, non lo dicono solo i folli come me, ma anche le imprese". Perciò ai giovani dice: "non pensate al piccolo gruppo, al negozio sofisticato di design", ma progettate per il mondo! Altri, come il francese Philippe Starck, sostengono che se "il design come lo intendiamo è morto", in futuro "si produrranno oggetti carichi di sentimento completamente inutili". Ma è proprio di questo che abbiamo bisogno?

Verso la sostenibilità
"Non credo che il design di questo tipo (industriale, ndr) sia finito" ci dice Riccardo Blumer, docente all'Accademia di architettura di Mendrisio. "Rimarrà come una tipologia specifica ma altre, già ora prevedibili, si svilupperanno in alternativa producendo nuovi modelli. Il vero problema sarà quando le macchine (tra non molto) avranno la capacità di essere creative. Come si dice, allora saremo veramente nei guai!". Una tipologia sulla quale si riflette da tempo ce la spiega Michele Amadò, filosofo e docente di estetica e comunicazione alla Supsi di Lugano. "Si credeva che il design industriale avesse definitivamente superato e ucciso l'artigianato tradizionale a favore di una standardizzazione globale. Ma la crisi del settore è a livello di economia e sostenibilità, più che di design". In altri termini, sostiene il docente di disegno industriale a Firenze Massimo Ruffilli, "il design deve migliorare la qualità del vivere e non distruggerla", perché ormai "occorre fare i conti con le risorse" (2).

Chiediamoci, per esempio, a che serve continuare a disegnare, produrre e vendere milioni di cucchiaini, tutti un po' diversi ma tutti con la stessa identica funzione? Si stima che, per moltissimi prodotti, lo spreco energetico delle aziende sia del 20%: "prodotti che nessuno vuole né vorrà mai!" (3). "Per una produzione industriale sostenibile va rovesciato il processo (come era per l'artigiano)" sostiene Amadò, "ovvero che il cliente vada coinvolto molto prima nella catena di produzione, anche nella fase di design". Altrimenti? "Altrimenti avremo sempre cucchiaini inutilizzati e inutilmente stoccati". Secondo Amadò occorrerebbe seguire la strada della "personalizzazione dei prodotti per il cliente effettivo".

"L'uomo passa, il mobile rimane"
"Chi compera una cosa la dovrebbe comperare come un riflesso di sè, dovrebbe conservarla, invece questo design (di massa, ndr) una volta acquistato, è già 'andato'!" ci dice l'architetto e noto designer di Ascona Carlo Rampazzi. Dunque? "Io cerco di dare un valore al mobilio e all'artigiano. L'idea è che una sedia è sognata e poi comperata dal cliente, disegnata da me e dipinta dell'artigiano, ma magari tra trecento anni finirà in un appartamento su Marte! Sarà 'eterna', diciamo. L'idea è che l'uomo è di passaggio, mentre il mobile rimane". Tuttavia, per Blumer, "il mondo delle costruzioni particolari molto qualificate, di nicchia o del lusso, mi sembra indifferente al fenomeno" della cosiddetta "democrazia dell'arredamento", quella basata sul design di massa poco caro.

Come si fa ad avvicinare di più il progettista al cliente, se il successo di aziende globali come Ikea, forse la più nota, si basa soprattutto sul risparmio? Qualcuno disposto a pagare qualcosa in più c'è sicuramente, ma è pur vero che siamo ancora lontani da tutto questo. Per chi scrive, servirebbe forse progettare di più coi giovani: "un'integrazione tra il settore dell'artigianato e i giovani in formazione alla Supsi, Csia, Accademia" afferma uno studio ticinese, allo scopo di "integrare conoscenze e competenze sui materiali, sul design, sull'architettura, sul marketing". Le giovani generazioni (ri)scoprirebbero gli artigiani e non il contrario, come si pretende spesso e a torto: avremmo una maggiore domanda di qualità, un'offerta più personalizzata e, in definitiva, meno spreco.

Democrazia e libertà?
Se la "democrazia dell'arredamento" non è di per sè negativa, ci sarebbe invece qualcosa da ridire sull'omologazione degli spazi abitativi: casa nostra dovrebbe riflettere la nostra individualità e invece... E invece oggi la standardizzazione "è lo stile", fa notare Blumer, "non essendo tutti dei creativi o meno semplicemente mobilieri, falegnami, fabbri". L'esempio di Ikea è emblematico. Come dice il collega Ettore Livini, "una volta varcata la soglia dell'Ikea (...) si entra nella bambagia delle certezze estetiche planetarie" e si perdono gli "ultimi frammenti di biodiversità domestica". Per i sociologi come Tony Blackshaw, Ikea va oltre i suoi prodotti, è un concetto di vita, è il calore della casa, il senso della famiglia, il tempo libero, ecc. E "siamo tutti come dei clienti di Ikea, perché spesso non sappiamo cosa vogliamo", "spesso compriamo per impulso", dice Blackshaw (4).

Vogliamo gli oggetti perché sono come i sogni, destinati a durare poco, subito obsoleti perché programmati così. Ammesso che le cose stiano così, cioè che siamo tutti un po' "ikeizzati", ma almeno i progettisti saranno liberi? Idealmente, dice Amadò, chi progetta "è tanto più libero quando può confrontarsi con le esigenze del cliente, quasi direttamente, altrimenti progetta in astratto, per una azienda che poi cerca il cliente". Già, soprattutto quando già le aziende cercano i progettisti. Ad esempio, la Fondazione Ikea (Svizzera) mette in palio migliaia di franchi per dei progetti "innovativi": è accaduto per degli utensili da giardinaggio di due giovani designer svizzeri. Ebbene, questi hanno dichiarato: "siamo rimasti liberi e indipendenti a livello lavorativo e progettuale", salvo poi riconoscere che senza i soldi di Ikea non avrebbero mai potuto testare né le varie forme né i vari materiali.

Note:
(1) L'objet et son lieu, a cura di Claire Azèma (Ed. Sorbonne, 2004).
(2) Design a mano libera, M. Ruffilli, L. Giraldi (Alinea Editrice, 2010).
(3) Si veda Mass Customization & Sustainability di C. Boër, P. Pedrazzoli, A. Bettoni, M. Sorlini (Springer, 2013). Per un riassunto si veda qui.
(4) Leisure, T. Blackshaw (Routledge, 2010).